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Thursday, October 25, 2012

Vita mutatur non tollitur


Per la ricorrenza della commemorazione dei  defunti si adattano bene queste parole tratte dal libro di Luigi Tirelli, che se n'è andato in Cielo qualche giorno fà (il 18 ottobre). Don Luigi è stato il primo  italiano ad essere ordinato sacerdote nella Prelatura dell'Opus Dei Era nato a Reggio Calabria nel 1921 e si era trasferito a Roma nel 1933. Si è laureato in Lettere alla Sapienza e in Filosofia all’Angelicum, nel 1952.Negli anni ‘60 fu Vicario Regionale per l’Italia e negli anni ‘70, con l’incoraggiamento di san Josemaría, fu uno dei promotori del Cris (Centro Romano Incontri Sacerdotali). Dal 1981 al 2000 è stato alla guida della parrocchia di Sant’Eugenio a Valle Giulia, a Roma, svolgendo un abbondante lavoro pastorale, fino ai suoi ultimi giorni, quando dedicava tanto tempo in confessionale alle confessioni e alla direzione spirituale. 
Per noi tutta la carne è salva, perché purificata, liberata, riscattata dal Crocifisso: con Lui sepolti, con Lui risorgiamo. E risorgiamo interi, anima e corpo in una unita più gloriosa di quella della creazione, perché porta ormai l’immagine di Cristo trionfante. La gloria della Risurrezione, stampata nei redenti, ci autorizza a cantare anche nei funerali, anche nelle liturgie dei defunti, perché il cristiano sa che "vita mutatur, non tollitur" che la vita non e tolta, ma trasformata: non e l’esaltazione di una memoria che idealizza alterando la realtà e tantomeno la consolazione di una rievocazione nostalgica di presenze perdute. E il canto pieno della fede in un presente sempre reale e in una realtà sempre presente. Le larve e i fantasmi, noti alle concezioni pagane, cedono il posto alla credenza nei vivi dopo la morte. Impressionante la testimonianza di Giobbe che, dopo ripetuti accenti di umano sentire sull’irrevocabilità della corruzione e della morte, prorompe in un grandioso, profetico atto di fede nella risurrezione del corpo: “Io lo so che il mio Redentore  è  vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!” (Gb 19, 25). La potenza del Redentore é presentata da alcuni versetti di Matteo che parlano di un anticipo della finale restituzione dei corpi: ”...i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono. E uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella citta santa e apparvero a molti» (Mg; 27, 52-53).
Il soffio di vita che pervade tutto il messaggio cristiano impedisce che ci fermiamo davanti ai sepolcri come davanti a un trionfo della morte, o che li scambiamo per ammonimento ai vivi. Per ogni credente si rinnova la domanda degli angeli alle pie donne: “Perché cercate tra i morti colui che e vivo?” (Lc 24, 5). Parlare con i morti come si fa con i viventi non e l’illusione di chi tenta di captare voci nell’etere, inutile e irrispettosa impresa di quanti vacillano nella vera fede; e la normale conseguenza  di questa continuità  della vita nella Vita. “In Cristo viviamo”, afferma ripetutamente l'Apostolo, e in Cristo anche parliamo con gli altri. Il colloquio del cristiano con i defunti non e l’illusoria consolazione foscoliana che il sopravvissuto procura a sé stesso: e la potente comunicazione in Christo Iesu   di affetti, pensieri, promesse. Infatti io prego il fratello passato a vita duratura, nella fede della Chiesa, che mi da assicurazioni della santità delle anime purganti e mi insegna altresì che ho mezzi per suffragarle, per aiutarle nel loro stato di purificazione. Questo rapporto di amorosa corrispondenza e un bene assai grande che non ci è permesso di smarrire nel turbine degli interessi terreni.
Come c’é un dovere di fedeltà verso i consanguinei, gli amici, i benefattori che tuttora vediamo e con i quali viviamo, esiste lo stesso obbligo verso coloro che sono scomparsi dalla scena di questo mondo. La pietas e più che un sentimento; è una virtù e un dono che ci fa compiere atti meritori. La pieta verso i defunti ha un carattere gratuito, che nessun materialismo e in grado di spiegare; pregare per quanti non hanno alcuna possibilità fisica di dirci un "grazie" e una delle forme di amicizia più pure che esistano, e d’altra parte noi cristiani siamo in una costante corrente di simpatia con gli spiriti di ogni tempo. La piu caratteristica espressione di questo "salire e scendere" di preghiere e di grazie, come scala di Giacobbe di inesausta ricchezza, e rappresentata dal culto dei santi. Non a caso la Chiesa fa precedere il 2 novembre dalla festa di tutti i santi: i quali, amici di Dio, sono i più autorevoli intercessori presso di Lui. Non e soltanto l'uomo colto che avverte affinità e consonanze con quelli che l’hanno preceduto nelle lotte per la vita dello spirito; e anche l’uomo della strada a intuire nel santo patrono, nel modello popolare, un suo portavoce, un interprete della sua coscienza e un amico per i suoi bisogni. Chi ride di questo scambio apparentemente superstizioso fra i santi e i devoti non ha possibilità  di capire molti segreti dell’animo umano, ed è ancora analfabeta nella lettura di sentimenti che non hanno compensi immediati: l’amore della madre, l’assistenza allo sconosciuto, la silenziosa abnegazione per il bene altrui, l'elemosina nascosta... Non e vero che l’offerta votiva sia il residuo della paura pagana per il nume vendicativo. Molti sono i casi dei fedeli che offrono anche senza ricevere, come sono moltissimi i malati che tornano da Lourdes con l’animo lieto, anche senza aver ottenuto la guarigione.
Mentre si affollano le chiese nei giorni dei morti e si accendono lumini e candele, veniamo presi come da un vortice in cui presenze invisibili si alternano a visibilissime fiamme di palmare sensualità.  La civiltà dei consumi, che ha falsamente introdotto surrogati di sacramenti con i matrimoni civili, con le feste della mamma e con i minuti di silenzio, si trova nella necessita di manifestare in qualche modo con riti o con segni a doppia faccia i il suo credo nella sopravvivenza.
Il "non omnis moriar" (“Non tutto io morrò”) del poeta latino non va affidato a un semplice monumento poetico: è l’aspirazione  insopprimibile alla vita che non muore, che non può  morire, perché in ogni mio gesto, in ogni parola, in  ogni programma c’è un’impronta inequivocabile di perpetuità.


Dal libro : LUIGI TIRELLI,  La Fede dei figli di Dio. pp.54-57, ed.ARES


 
 
 

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