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Friday, March 02, 2012

7 domeniche

E' una devozione antica della Chiesa meditare sulla vita di san Giuseppe nelle 7 settimane che precedono la sua festa. "Giuseppe, il Padre che Gesù non nomina mai" è il titolo di un libro scritto da Marie-Dominique Philippe, un teologo dominicano fondatore della comunità di san Giovanni e grande cantore del santo patriarca. Parlando della solitudine di Maria e di Giuseppe affronta in una lunga nota l'argomento della visione beatifica.

ADORAZIONE E VISIONE BEATIFICA
Nella visione beatifica noi saremo soli davanti a Dio, e i nostri amici saranno felici di ciò, così come lo saremo noi di saperli soli con Dio, poiché quella è la nostra unica beatitudine, è la beatitudine in assoluto. Questo stato di felicità perfetta e senza fine non lo raggiungiamo stando con una creatura che amiamo molto, bensì nell'esser soli con Dio. Lì si fa esperienza dello spirito creato, il quale reclama questa solitudine, desidera essere legato direttamente a Dio.
Già sulla terra, nell'adorazione, siamo assolutamente soli con Dio, poiché nel profondo di noi stessi c'è qualcosa di segreto tra lui e noi: Dio crea la mia anima spirituale in modo unico, e nell'atto d'adorazione riconosco questa dipendenza radicale nei confronti di Dio Creatore che è mio Padre. Lo spirito creato, in quanto tale, è solo con colui che l'ha creato, e riconosce questo dono d'amore, per lui assolutamente gratuito (che lo fa essere) e vitale (da cui l'importanza dell'adorazione). Questa solitudine dello spirito creato con il suo Creatore e Padre si trova fondamentalmente nella beatitudine. Certo, la carità fraterna abita in cielo poiché è, come dice san Tommaso, una «partecipazione alla carità infinita che è lo Spirito Santo» (cfr. Summa Theologica, II-II, q. 24, a. 7; q. 23, a. 3, ad 3), ma non è lei a costituire la beatitudine; ne è piuttosto un'irradiazione, una sovrabbondanza.
È chiaro che sulla terra la nostra solitudine con Dio nell'adorazione ed il desiderio di contemplazione non escludono affatto l'amore del prossimo, poiché Gesù è venuto a rivelarci il comandamento nuovo che è «simile» al primo (cfr. Matteo 22,39): «Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. (... ) Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Giovanni 15,9-12). Ed amare come Gesù ci ha amato, cioè come il Padre l'ha amato (Giovanni 15, 9), non significa provare ad amare il nostro prossimo alla meno peggio, conformandoci ad un modello. Si può amare il proprio fratello come lo ama Gesù solo cercando di essere uniti a lui, al punto da farlo con lui, di vivere solo di lui, come dice san Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Galati 2, 20). La carità fraterna, sulla terra, è il primo frutto della nostra unione con le tre persone divine, e senza essa non c'è vera contemplazione. Finché viviamo ancora nella fede, non dobbiamo mai dimenticare che «chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Giovanni 4,20). «Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi» (4,12). La carità fraterna è un frutto della nostra vita di comunione con Dio (è il dono della sapienza che fa da legame tra i due), ed è anche una disposizione per entrarvi più profondamente.

Da MARIE-DOMINIQUE PHILIPPE, Giuseppe, Il Padre che Gesù non nomina mai. Nota17 di pag86. Ed. PIEMME

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