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Tuesday, June 22, 2010

La scoperta della perla preziosa

Tutto..., tutto deve vendere l'uomo avveduto, pur di ottenere il tesoro, la perla preziosa della Gloria!

Che cosa rende così difficile tutto questo? L'attaccamento del nostro cuore a cose e a persone, l'affermazione di sé, in sé medesimi - certo; ma con ciò non è detto tutto. Molto peggio è il fatto che in fondo non sappiamo per nulla esattamente a che cosa dovremmo dedicarci. L'intelletto forse lo "sa", l'ha sentito o l'ha letto; ma il cuore non lo sa. Il senso interiore non capisce. È cosa estranea alla radice della vita. Dare, in verità, non è affatto difficile, devo solo sapere per che cosa. Non per avere vantaggio, ma perché posso staccarmi da un reale valore solo per amore di uno più alto; debbo però sentirlo. E consistesse anche il valore soltanto nel coraggio del distaccarsi - allora io debbo necessariamente sentire appunto che il lasciare è cosa magnifica. E per questo in realtà che stanno scritte le parole sul «tesoro» e sulla «perla»! Non appena mi sta dinanzi l'oro, non è più difficile offrire in cambio casa e suppellettili; ma devo vederlo. Non appena si presenta la perla, posso vendere tutto per averla; ma essa deve luccicare realmente davanti a me. Io posso offrire le cose dell'esistenza per 1'«Altro» - ma cose e persone mi toccano, esercitano su di me un potere; l'Altro, al contrario, per il mio sentimento è irreale! Come posso offrire per amore di un'ombra la poderosità del mondo? Che il Regno di Dio sia prezioso, me lo si dice, ma io non lo percepisco. Che cosa giova al mercante, se uno gli racconta: in quel determinato posto v'è una meravigliosa perla; dà per essa ciò che tu possiedi? E deve necessariamente vederla. Il fatto di non vedere il luccicare della perla, di non essere interiormente afferrati dalla preziosità di ciò che a noi viene in Cristo - questo è la sfortuna! Come dovremmo condurre la lotta, se da una parte stanno «i regni del mondo e la loro gloria» (Alt 4, 8), dall'altra però un'indeterminatezza opaca?

Come possiamo avanzare? Anzitutto con la frase: «Signore, io credo, aiuta la mia incredulità!» (Mc 9, 24). Certo, in realtà noi abbiamo pur qualche sentore della perla e del tesoro; quindi dobbiamo rivolgerci al Signore della gloria e pregarlo di mostrarsi a noi. Egli lo può fare. Egli può concedere che la preziosità infinita del regno di Dio ci tocchi il cuore e l'anelito nasca. Può far sì che l'oro del tesoro ci colpisca coi suoi raggi e ci appaia chiaro che cosa abbia reale valore: esso, o le cose del mondo. Perciò siamo obbligati a pregare. Continuamente siamo necessitati a stracciare il velo della tenebra perché si apra e lasci entrare la luce. Continuamente dobbiamo pregare che Dio ci tocchi il cuore. In tutto ciò che facciamo deve esservi nell'intimo qualcosa di vigile e orientato verso ciò che lo trascende verso l'alto. E questo quel pregare che «non cessa mai» (cfr. Lc 18, 1; 21, 36; Ef 6, 18; I Ts 5, 17) e sicuramente trova esaudimento.

Ma ciò non basta ancora. Per le parole di Dio, le cose non procedono nel senso che prima le si conosca interamente e poi si agisca in conformità di esse, ma conoscere e agire convergono in unità. Dapprima si conosce poco. Se si agisce secondo questo poco, la conoscenza cresce, e dalla conoscenza crescente scaturisce un agire potenziato. Qualcosa della perla sicuramente noi l'abbiamo scorto. Certo abbiamo un presentimento che quel comportamento che Cristo chiama «amore» è più prezioso del nostro agire quando il suo motivo viene dalle concezioni correnti intorno a noi e dal sentimento personale. Non potremmo dunque prendere sul serio quel poco che capiamo? Per esem-io, trattare un'offesa non secondo il sentimento spontaneo o la considerazione sociale dell'onore, ma secondo I'oríentamento di Cristo? Rischiare con l'amore, che è sovrano e attinge dalla propria pienezza? Perdonare, ispirati dal cuore di Cristo, con tanta purezza quanto ci è possibile? Se agiremo così, comprenderemo meglio che cosa sia in gioco qui; anzi no, comprenderemo soltanto ora, perché le realtà dell'esistenza, in verità, si fanno chiare soltanto quando le si attua. E, la prossima volta, saremo in grado di fare di più: più facilmente distaccarci, "vendere" più coraggiosamente, "odiare" più onestamente – che cosa? Il nostro istinto, la nostra cupidigia, il nostro sentire spontaneo la nostra autogiustizia, tutti i criteri apparentemente così inattaccabili dell'onore e del diritto. Penetreremo più in profondità nel nuovo ordine; questo ci arrecherà nuova conoscenza e da essa a sua volta scaturirà nuova azione... Già ora presagiamo certamente che significa qualcosa di diverso eseguire il proprio lavoro a servizio di Dio dal farlo solo nell'ambito della professione terrena. Questo è determinato dalla volontà dell'autoconservazione, o dallo slancio del creare, o dal desiderio di servire il proprio ufficio e il proprio tempo - quello, invece, dalla volontà di mettere a disposizione del dominio di Dio il proprio agire, affinché egli vi operi la Nuova Creazione. Non si potrebbe cominciare con questo atteggiamento? Si vede pur qualcosa della grande realtà di cui si tratta qui; non si potrebbe assumerlo nel proprio orientamento e far sì che influisca nelle motivazioni del lavoro? Per esempio quando non si prendono in considerazione gli esiti e s'affaccia la tentazione di prendere la cosa con leggerezza? O quando qualcuno appare stolto agli occhi del mondo, ma viene richiesto dalla voce intima? Allora si instaurerebbe di nuovo quell'effetto di reciprocità per il quale nell'agire cresce la conoscenza e da quanto è meglio conosciuto sgorga un agire più fecondo.

R. GUARDINI, Il Signore, pag. 250-252



La vocazione cristiana e il 26 giugno

 La scoperta della vocazione cristiana è paragonata allla scoperta di un tesoro
Scrivevi: “Simile est regnum coelorum” — il Regno dei Cieli è simile a un tesoro... Questo passo del Santo Vangelo mi è caduto nell'anima, e ha messo radici. Lo avevo letto tante volte, senza coglierne il midollo, il sapore divino”. (FORGIA 993)