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Saturday, June 11, 2011

Marshall Mcluham : 21 luglio 2011

Un centenario da ricordare nei "media" ?
Lui ci avrebbe scherzato con il senso di humor che aveva tanto apprezzato in  Gilbert Keith Chesterton, lo scrittore e polemista cattolico che segnò la conversione di McLuhan alla Chiesa di Roma. Come scrive Guido Vitiello nel FOGLIO del 4 giugno 2011 " Dall’autore di Ortodossia McLuhan mutuò il tono della sua fede e, quel che più conta, della sua persona pubblica. Era il tipo antropologico del cattolico ridens, del tomista allegro, tutto umorismo, sprezzatura cavalleresca e meraviglia per le cose di questo mondo. Insomma, la risposta vivente a un’osservazione crucciata di Nietzsche, che si chiedeva come mai i cristiani non avessero “un aspetto più da gente salvata”.  McLuhan sottolinea l'importanza che nell'uomo ha il gioco . L' homo ludens messo così bene in luce da J. HUIZINGA nel suo celebre saggio "Homo ludens" del 1939.
"
L'idea di gioco sottolinea il rapporto complementare che esiste tra autore e lettore, la complicità "fattiva che deve instaurarsi tra più soggetti per giungere a una rivelazione: «Tra tutti i momenti della vita deve esserci “gioco” , come tra un asse e una ruota, un albero di trasmissione e un volano [...]. Se c'è gioco, l'uomo è creativo; se c'è stridore, l'uomo si stanca. Quando l'uomo si prende troppo sul serio, non ha più "gioco", perde contatto [...] è up tight, teso [...]». E da questa considerazione che nasce uno degli aforismi più significativi di McLuhan: “Quando gioca, l'uomo usa tutte le sue facoltà; quando lavora, si specializza”. E’ importante sottolineare questo aspetto o meglio questa intenzione ludica della comunicazione mcluhaniana, poiché proprio il gioco, soprattutto quello verbale che sfocia nello humour, è considerato da McLuhan fattore di per se stesso a forte valenza euristica, proprio per il suo potenziale percettivo: «Crediamo che lo humour sia un segno di sanità mentale per un ottimo motivo: nel divertimento e nel gioco recuperiamo la persona integrale che nel mondo lavorativo o nella vita professionale può usare solo una piccola parte del proprio essere». Il gioco verbale diventa così momento fondamentale, poiché riporta l'equilibrio nella percezione, equilibrio perso nel quotidiano per effetto della "specializzazione", che ancora caratterizza la nostra società, così come il nostro sapere; una società, quella occidentale, in cui l'emisfero sinistro domina su quello destro, ovvero una società guidata dalla logica e dalla ragione a discapito dell'immaginazione, dell'intuizione. L'ironia e lo humour sono, per contrappunto, armi preziosissime tanto per il fool che per McLuhan, poiché permettono di "colpire" rovesciando sentimenti e valori universalmente condivisi: il divertissement si fa così arma a doppio taglio, poiché l'effetto ludico poggia sul rovesciamento del canone (culturale, linguistico, espressivo) e ha, come controeffetto, quello di forzare, la presa di coscienza, l'epifania.


E. LAMBERTI, Marshall McLuhan, pagg.36-37. Ed. MONDADORI

Storie dalla NBA

Dwyane Wade è già stato in paradiso ed è già stato all’inferno. Sul tetto del mondo, campione NBA, il 20 giugno 2006, giorno di gara-6 tra Miami e Dallas. E sul fondo della Lega meno di due anni dopo, il 16 aprile 2008, quando i suoi Heat chiudono il campionato con un rara vittoria su Atlanta – solo la 15esima dell’anno – inutile per evitare la vergogna di essere la 30esima franchigia su 30 della NBA. Ma Dwyane Wade era già stato in paradiso e all’inferno prima. Molto prima. L’inferno l’aveva conosciuto a 6 anni, con una pistola puntata alla sua testa, durante un raid della polizia di Chicago nella sua casa nel South Side. Gli agenti non erano certo lì per lui, ovvio. Ma per sua madre sì. Ed ecco perché in paradiso Dwyane Wade ci si era già sentito l’8 marzo 2003, nell’ultima gara interna della sua carriera universitaria a Marquette, una vittoria contro Cincinnati buona per il primo titolo della Conference USA del suo ateneo. Il successo sportivo, quel giorno, era la parte meno importante. Tra il pubblico, infatti, a celebrare il titolo anche mamma Jolinda. Normale, direte voi? Non così normale, dato che la signora era uscita di prigione solo 3 giorni prima. Quell’8 marzo – finalmente libera dopo 14 mesi di reclusione, finalmente riunita al suo “bambino” – Jolinda Wade era ovviamente in paradiso. Ma anche per lei, soprattutto per lei, vale quanto detto per il figlio Dwyane: aveva già conosciuto l’inferno, prima. E che inferno. “Ero una persona disgustosa anche a me stessa”, le parole che usa per descriversi. Alcool. Droga. Il primo arresto nel 1992. Cinque mesi dentro. Poi altri due arresti. E ancora 23 mesi dietro le sbarre. Nel 1997, fuori per un permesso, decide di non ritornare in carcere e diventa una fuggitiva, a tutti gli effetti. Per quasi cinque anni. Fino al 14 ottobre 2001. Fino a un mattinata trascorsa in chiesa.

Ora sappi questo: gli ultimi giorni saranno molto difficili, perché gli uomini saranno egoisti, presi dal denaro, vanitosi, arroganti, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, senza rispetto per ciò che è sacro, senza sentimenti, sleali, calunniatori. Saranno incapaci di autocontrollarsi, crudeli e nemici del bene. Tradiranno i propri amici; saranno insensati, pieni d’orgoglio; preferiranno i piaceri della vita a Dio; conserveranno l’apparenza esterna della fede, ma ne rigetteranno la potenza .

Sono questi versetti biblici che cambiano la sua vita. Decide di smettere di bere e di drogarsi. E decide di tornare in cella. Volontariamente. Per quei 14 mesi che la rendono nuovamente libera, per sempre, in tempo per vedere il figlio iniziare la corsa verso il successo. Il titolo della Conference USA. Le Final Four NCAA. La quinta scelta assoluta al Draft 2003. E poi il titolo di campione NBA, in quel 20 giugno 2006. Il primo. Forse non l’ultimo. Perché oggi Dwyane – con i suoi nuovi “amici” LeBron e Chris – punta ancora al paradiso, quello NBA, mentre mamma Jolinda – ordinata pastore nel 2007 – punta dritto al Paradiso, quello vero.

Editoriale rivista NBA, giugno 2011 di Mauro Bevacqua