Search This Blog

Tuesday, October 05, 2010

Josemaria Escrivà : gli Angeli custodi


C'è un qualche collegamento tra gli Angeli Custodi e la fondazione dell'Opera il 2 ottobre 1928?

ecco come inizia della lettera di ottobre 2010 del prelato dell'Opus Dei:
            
 Carissimi: Gesù mi protegga le mie figlie e i miei figli!

      L’anima è inondata di allegria nell’immaginare la gioia di san Josemaría il 2 ottobre 1928. Uniamoci a quella preghiera che fece in ginocchio e che sgorgò dalla sua anima dinanzi alla fiducia che gli dimostrava il Cielo e prendiamo coscienza – più volte al giorno – della realtà che anche noi siamo compresi in questa manifestazione di Dio a san Josemaría.
      Benedite, angeli del Signore, il Signore, / lodatelo ed esaltatelo nei secoli [1]. Con queste parole della Sacra Scrittura ha inizio la Messa di domani, festa dei Santi Angeli Custodi, che devono avere un’eco molto forte nelle donne e negli uomini dell’Opus Dei. Ci possono servire da spunto per innalzare il nostro ringraziamento a Dio in questo nuovo anniversario della fondazione, perché – come affermava san Josemaría – non è un caso che Dio abbia ispirato la sua Opera il giorno in cui la Chiesa li festeggia (…). Siamo loro debitori molto più di quanto pensiate [2].
     [2] SAN JOSEMARÍA, Appunti raccolti durante un incontro informale, 24-XII-1963.

"Molto più di quanto pensiate ". Non quindi una semplice coincidenza, non solo una bella data per una fondazione così sorprendente. Forse per capire di più occorre approfondire , teologicamente, la natura degli Angeli Custodi . San Josemaria ha lasciato scritto qualcosa a questo proposito?

Josemaria Escrivà: 6 ottobre

Sono passati 8 anni dalla canonizzazione del fondatore dell'Opus Dei: qual'è il cuore del suo messaggio?
Santità e apostolato nel "bel mezzo della strada".

La vocazione cristiana è vocazione alla santità: cioè a seguire Cristo nella vita ordinaria di tutti i giorni

"È necessario ripetere continuamente che Gesù non si rivolse a un gruppo di privilegiati, ma venne a rivelare l'amore universale di Dio. Tutti gli uomini sono amati da Dio; da tutti Dio aspetta amore. Da tutti, qualunque sia la condizione personale, la posizione sociale, la professione o il mestiere. La vita ordinaria non è cosa di poco conto; tutti i cammini della terra possono essere occasione di incontro con Cristo, che ci chiama a identificarci con Lui, per realizzare — nel posto in cui ci troviamo — la sua missione divina.
Dio ci chiama attraverso i fatti della vita di ogni giorno, le sofferenze e le gioie delle persone con cui viviamo, le preoccupazioni umane dei nostri compagni, le cose spicciole della vita di famiglia. E Dio ci chiama anche per mezzo dei grandi problemi, dei conflitti e dei compiti che caratterizzano ogni epoca storica e suscitano gli sforzi e gli entusiasmi di gran parte dell'umanità."(  È Gesù che passa , Cristo presente nei cristiani  punto 110)

All'interno di questa universale chiamata alla santità, può invitare alcuni a seguirlo in una chiamata specifica che ha come segno distintivo la disponibilità ad un apostolato più  diretto.
Paolo VI così descriveva gli effetti che quella vocazione specifica produce nell'intimo di chi è chiamato:

"l’apostolato è innanzi tutto una voce interiore che pronuncia, a quando a quando, una sconcertante valutazione delle cose, vanificandone alcune, anche buone e carissime, esaltandone altre, credute difficili, estranee, utopistiche; una voce inquietante e rassicurante ad un tempo, una voce altrettanto dolce quanto imperiosa, una voce molesta ed insieme amorosa, una voce, che, in coincidenza con impreviste circostanze e con gravi avvenimenti, diventa ad un dato momento attraente, determinante, quasi rivelatrice della nostra vita e del nostro destino, profetica perfino e quasi vittoriosa, che fuga alla fine ogni incertezza,  ogni timidezza ed anche ogni timore, e semplifica fino a rendere finalmente facile, desiderabile e felice la risposta di tutto il nostro essere, nell’espressione di quella sillaba, che svela il supremo segreto dell’amore: sì; sì, o Signore, dimmi quel ch’io devo fare, e oserò, lo farò. Come S. Paolo, folgorato alle porte di Damasco: «Quid vis me facere?», che cosa vuoi ch’io faccia? (Act. 9, 5). La radice dell’apostolato si affonda in questa profondità: esso è vocazione, è elezione, è incontro interiore con Cristo, è abbandono della propria personale autonomia alla sua volontà, alla sua invadente presenza; è una certa sostituzione del nostro cuore, povero, inquieto, volubile e talora infedele, ma avido d’amore, col suo, col cuore di Cristo, che comincia a pulsare nella sua creatura d’elezione. Allora succede il secondo atto del dramma psicologico dell’apostolato: il bisogno d’effondersi, il bisogno di fare, il bisogno di dare, il bisogno di parlare, il bisogno di trasfondere in altri il proprio tesoro, il proprio fuoco. Da personale il dramma si fa sociale, da interiore esteriore. La carità del rapporto religioso diventa carità del rapporto col prossimo. E come la prima carità ha svelato sconfinate dimensioni (cfr. Eph. 3, 18), così la seconda non vorrebbe più limiti; l’apostolato diventa l’espansione continua d’un’anima, diventa l’esuberanza d’una personalità posseduta da Cristo e animata dal suo Spirito, diventa bisogno di correre, di fare, d’inventare, di osare quanto è possibile per la diffusione del Regno di Dio, per la salvezza degli altri, di tutti. È quasi un’intemperanza d’azione, che solo l’urto con le difficoltà esteriori riuscirà a moderare e a modellare in opere concrete e perciò limitate.  OMELIA DI PAOLO VI  Domenica, 13 ottobre 1968.